TEL AVIV – Israele

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Aereo – h 16.22 – Sorvolando il Negev
Da quassù, le colline paiono piccoli cumuli di sabbia edificati dall’uomo e appoggiati temporaneamente lì, sul piatto terreno, e non ci pensi che è proprio Terra Gea, quella vecchia megera rugosa, screziata e scrostata com’è, ad aver eruttato tutte quelle curve e quelle punte.

Aereoporto – h 17.00
Un’afa calda mi spinge in avanti. Fuori dall’aeroporto una schiera di palme, ritte e composte ma con la chioma scapigliata, come ex-soldatini in congedo, ci fanno da guida fino al centro città.

Tel Aviv – h 18.00
Mi guardo attorno. Occhi scuri e aguzzi, visi abbronzati, barbe incolte.
Sembra che le ore del giorno litighino tra loro per prendere il posto: alla mia sinistra, l’ultimo sole si congeda e si lascia scivolare oltre l’orizzonte; alla mia destra, la notte copre i tetti; sopra di me, la prima stella buca il cielo ancora bianco. Se avessi una vista d’acquila, non mi stupirei di vedere all’orizzonte, già vestita e pronta per uscire, l’alba dell’indomani.

Centro città – h 20.15
Giacché il piano terra non è adito all’abitazione, tutti i palazzi della città sono circondati da porticati tanto bassi che un tedesco ci batterebbe la testa facilmente. Ci sono tanti gatti neri ad attraversare la strada che un superstizioso non metterebbe l’alluce fuori di casa.
Essendo shabbat, la città è tappata in un insolito silenzio, un vago senso di vuoto.

Porto – h 20.39
Mi appoggio alla ringhiera a guardare il mare. Il legno è molle, bagnato e stressato dalla salsedine. Il rumore delle onde echeggia nel casto silenzio dello shabbat. Mi arriva un forte odore di griglia e di fritto: mi ricordo ora che non mangio da 13 ore.

PINETA

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OGIGIA

Un morbido tappeto di aghi secchi e terra, dipinto dai chicchi lillà della lavanda, si sbriciola tra le mie dita dei piedi come crosta di pane.
L’odore pungente del pelo d’asino e del muschio invade le narici del cuore e mi àncora all’eterna memoria di una natura interiore.
Mi arrampico sui rami per rubare i fichi e le carrube, con una mezzaluna felice sul viso e noncurante del cipresso che mi fissa con disappunto dalla sua veneranda altezza.
Tra i pini marittimi stride il grido di guerra delle cicale, ritmico concerto di maracas e sonagli, e ai loro piedi ruzzolano pigne e leprotti selvatici.
Nemmeno gli ulivi mancano all’appello: i loro tronchi nodosi si sporgono tra le pale dei cactus e l’àloe vera. Dalle crepe della loro corteccia colano perle di resina, e fra le radici inciampano pietre spaccate dal sole, cozzando con un rumore di bottiglia. Le lisce venature del tronco, fiamme di un fuoco più grande, danzano in cerchi concentrici come curve di donne burrose.
Ansimante e voglioso, il sole fruga fra le pieghe del mio corpo, e durante l’amplesso brucia la mia pelle come lo schiaffo di un amante sulla natica.
Il mare panciuto, multiforme, mi richiama con le mille punte acute delle sue onde, stelle convesse scolpite dal punteruolo del vento. Onde che si incrociano in piccoli rombi a mo’ di rete da pesca, e alzano il becco simili a rondinini pigolanti in un nido blu cobalto.

Nuda pioggia

nuda pioggia 2Piove, guarda.
La fredda pioggia mi sorprende nuda, e nuda mi concedo a lei, venuta forse per confortarmi, e le porgo i seni scoperti, che lei fa intumidire mentre lambisce il mio collo e le spalle e il corpo tutto. Come la carezza di una mano… della tua mano.
Riaffiora ostinato il ricordo della tua mano sul mio corpo, ricordo recente delle tue lunghe bianche magre dita che tamburellano sulla mia pelle umida, e scivolano sulle mie curve e stringono le mie cosce con urgenza e voluttà. I graffi sulla schiena che non facevano male, come queste gocce che ora cadono sul mio corpo inerme, inerme come allora, e approfittano della mia nudità per esplorarmi, come allora facevano le tue mani.
E se una goccia più audace delle altre mi tocca le labbra e ruba un mio bacio, vuol forse imitare la tua bocca, commemorare i tuoi baci famelici tracciando l’impronta del sorriso che ho tanto ardentemente desiderato.
Ma ecco scaccio, scaccio via l’orribile immagine del tuo sorriso: freddo, ora gelido, ghiacciato dalla lunga notte, privato del roseo calore e consunto dalla terra in cui giace per sempre.
Con fatica, uccido la passione cruenta che mi tratteneva legata a te, prigioniera del tuo cuore, schiava del tuo sguardo e serva devota della tua voce. E ci riesco.
Ci riesco.
Ci riesco,
ci riesco…
Ci
riuscirò

?

* foto di Carla Van de Puttelaar

Incendia il vuoto

imageMi sono ammalata e non è amore. Mi sono ammalata ed è ossessione. Purtroppo, preferisco incendiarmi nelle emozioni che non alienarmi nella praticità di una vita che mi sta stretta: non voglio nascondermi dietro alle regole e marcire nel “corretto”.
Brucerei nelle tenebre piuttosto che soffocare nelle mediocrità,
ahimè assai più taglienti
dei più profondi turbamenti
dell’animo
sulla mia carne puerile.
Ormai fluttuo a velocità supersonica in una nuova dimensione, come un torrente irrefrenabile: voglio solo produrre rumore, accendere la mia vita di passione. Ho voglia di amore ma bisogno di libertà: perché le due cose mi sembrano inconciliabili? Mi sento terribilmente distante da un mondo lento che si annoia da solo. E lentamente sprofondo in una divorante malinconia, nel crogiolarsi di una solitudine inquieta. Intorno a me, il vuoto. Come un uomo sulla grigia sabbia lunare, circondato dal buio della volta celeste, lontano dal rumore della vita, rischio di soffocare non per la presenza di qualcosa ma per l’assenza, assenza di ossigeno in quel caso. Ma il vuoto non resta passivo intorno a me, prende vita e diventa antagonista della mia atarassia. La privazione di qualcosa che mi si mostra in brevi bagliori di vita e scompare di nuovo prima che io la possa afferrare, lasciando un’inspiegabile amaro in bocca.
La calma della mia anima è fugace, l’antidoto è la seduzione del peccato.